Verona e la guerra. Giovanni Perez: la “grande scacchiera” che ci ha portato al confronto attuale

Come promesso abbiamo aperto L’Adige alle vostre opinioni sul conflitto attuale che ci vede dopo ottant’anni nuovamente assai vicini alla linea del fuoco. Vi ricordiamo la lunghezza di 3mila battute per rendere agevole la lettura. Indirizzate il vostro scritto a boss@giornaleadige.it (copyright foto copertina lanotiziagiornale.it)

(di Giovanni Perez) La guerra ancora in corso in Ucraina, non solo ha provocato infiniti lutti, immani rovine materiali e morali, cicatrici che molto probabilmente mai si rimargineranno, ma ha altresì provocato contrapposti giudizi nelle medesime comunità politiche, a destra quanto a sinistra, creando schieramenti rispetto ai quali nessuno riesce ad indicare una mediazione possibile, una possibile via d’uscita. Facile immaginare quali potrebbero essere le ulteriori devastazioni nel caso il conflitto dovesse estendersi fino ad un nostro coinvolgimento diretto.

Proprio alla luce di una simile premessa, risulta necessario alzare lo sguardo e cercare un orizzonte superiore di riferimento, dal quale vedere più oggettivamente la situazione venutasi a creare, ricorrendo ad una disciplina oggi ritornata drammaticamente alla ribalta: la Geopolitica.

Questa disciplina, nella sua versione moderna, che alcuni considerano essere una scienza prescrittiva, in grado cioè di prevedere gli esiti politici futuri degli scenari considerati, sorge soprattutto ad opera di un genio universale quale fu Friedrich Ratzel, che riuscì ad estendere lo sguardo della geografia fisica alla geografia umana, quindi alla Geografia politica, cui riservò lo studio dei rapporti che, in sede storica, si stabiliscono tra il destino degli Stati e il particolare contesto geografico nel quale essi si trovano ad esistere ed operare.

Talassocrazia contro Heartland

Gli elementi geografici, propri della geografia sia fisica che umana, secondo le diverse scuole di pensiero geopolitico, possono non soltanto influire, ma addirittura, determinare le decisioni politiche prese dagli Stati, dagli Imperi e dagli altri soggetti politicamente rilevanti quali, ad esempio, l’ONU, senza escludere le varie centrali del potere occulto internazionale. Realizzare la politica secondo il destino assegnato dalla propria collocazione geografia, non può che creare situazioni di amicizia o inimicizia fra gli stessi stati, per dirla con il linguaggio di Carl Schmitt, assicurando perciò la pace o, purtroppo, provocando le guerre, che da sempre accompagnano la storia dell’umanità.

Fu un altro genio della Geografia politica, Halford J. Mackinder, a stabilire la distinzione fondamentale tra le potenze imperiali talassocratiche, ossia fondate sul dominio del “Mare” e degli oceani, quindi delle rotte marittime commerciali, dei porti quali basi di appoggio protette militarmente, degli stretti e delle vie di comunicazione tra i continenti, alle quali si contrappongono le potenze continentali, legate alla “Terra”, prive di sbocchi e costrette a cercare l’autosufficienza, pena la loro consunzione e fuoriuscita dalla storia.

Se la sostanza della Geopolitica in questi studiosi era stata sicuramente raggiunta, si può ricordare che fu Rudolf Kjellén a coniarne il termine nel 1899, per essere poi fatto proprio e approfondito in maniera originale da Karl Haushofer, che lo impose nell’ambito della politica estera, della geostrategia, del diritto internazionale, non solo della Germania, al cui servizio egli finalizzò spesso i suoi studi, ma anche in Italia dove, alla fine degli anni Trenta, Giorgio Roletto ed Ernesto Massi fondarono la rivista “Geopolitica”, con l’autorevole imprimatur di Giuseppe Bottai.

In questa sede deve però interessare la visione geopolitica di Makinder, a cui si deve aggiungere quella di Nicholas J. Spykman, per la loro incredibile attualità, anche a proposito della guerra che si combatte in Ucraina. Makinder aveva sostenuto che dal punto di vista geopolitico il nemico oggettivo della Gran Bretagna era la Russia, all’epoca retta dagli Zar, potenza continentale, ricca di materie prime, dalle dimensioni immense, pressoché impossibile da conquistare.

Egli ritenne che l’Impero talassocratico britannico rischiasse di essere sconfitto qualora si fosse stabilita un’alleanza tra la Russia, che occupava l’Heartland, il “cuore del mondo” e la Germania, creandosi così un blocco continentale autosufficiente, capace di trasformarsi in un polo di attrazione attorno al quale il resto del mondo avrebbe finito per gravitare e da lì ponendosi le basi per la creazione di un Impero mondiale.

Le analisi di Makinder e di Spykman sono trasmigrate e accolte dalle tante amministrazioni al governo degli USA, già durante gli anni della Guerra Fredda, per essere via via sviluppate da vari analisti, tra cui mi limito a ricordare soltanto il Zbigniew Brzezinski, autore del celebre La grande scacchiera, il cui significativo sottotitolo era: “Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana”.

Dopo l’89 e l’implosione dell’URSS, gli ex stati del Patto di Varsavia, si ritrovarono a svolgere il ruolo di stati-cuscinetto distesi lungo quel corridoio geopolitico definito da Spykman, Rimland, per chiudere e confinare la Russia, potenza continentale, entro frontiere ristrette e prive di sbocchi. La geopolitica degli USA, potenza talassocratica che si è sostituita nel medesimo ruolo storico alla Gran Bretagna, doveva impedire, ed ecco qui delinearsi il nodo cruciale che ci coinvolge direttamente, qualsiasi saldatura, foss’anche culturale e commerciale, tra la Russia e l’Europa, peraltro, ormai ridotta dopo il 1945 al rango di colonia, all’interno della politica egemonica della NATO a guida statunitense.

In temini geopolitici, anche dopo il crollo dell’URSS, si spiega così l’interventismo degli Stati Uniti in Europa, l’allargamento ad Est della NATO, il bombardamento nel 1999 di una capitale europea, Belgrado, la creazione di uno Stato come il Kossovo, l’ambivalente o ambiguo atteggiamento nei confronti del mondo islamico, peraltro complicato dall’esistenza di Israele e, per arrivare ai nostri giorni, l’appoggio incondizionato al governo Zelensky in Ucraina.

Gli USA, che hanno ereditato il ruolo imperialista della Gran Bretagna, sede però della finanza internazionale, attuano quasi alla lettera le indicazioni suggerite da Makinder per un contenimento della Russia e poco importa, dal punto di vista geopolitico, quale ne sia l’ideologia del momento al potere. Ciò che conta, è bene ribadirlo, è la salvaguardia della frattura tra la Russia e l’Europa occidentale, che il governo Berlusconi tentò di scongiurare a Pratica di Mare nel 2002, condannando sé stesso al suicidio politico, tutto ciò in attesa che si definisca nei dettagli il futuro scenario dello scontro per il dominio mondiale con la Cina e, forse con l’altra potenza asiatica emergente, l’India.

Ecco perché, dal punto di vista geopolitico, si combatte questa guerra in Ucraina; una guerra che rientra nella logica del potere talassocratico statunitense, al fine di rinchiudere la Russia nel suo Heartland, fatalmente destinato a consumare sé stesso, fino a quando non ci sarà un governo allineato agli obiettivi della NATO.

Purtroppo, e non vorrei apparire profeta di sventure, non posso che concludere queste note con un certo pessimismo dettato, appunto, da considerazioni geopolitiche. La storia è però fatta dagli uomini e il mio augurio è che i potenti del mondo, che da dietro le quinte muovono i fili della politica, almeno per una volta, facciano proprie le parole di Martin Heidegger quando disse: “Ormai soltanto un Dio ci può salvare”.

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