Verona e la Terza guerra mondiale: apriamo il dibattito. Mandateci le vostre opinioni

(s.t.) La strage di Mosca nei giorni scorsi; il rafforzamento dei contingenti alleati a protezione del fianco orientale della Nato; la sfida dei guerriglieri yemeniti Houthi che costringono l’Europa a presidiare con le navi il Mar Rosso per garantire l’accesso delle merci ai nostri porti, evitando una crisi economica; le manovre militari cinesi sempre più agguerrite e sempre più vicine a Taiwan e, ovviamente, due anni di conflitto in Ucraina e cinque mesi di battaglia nella striscia di Gaza (nella foto alcuni degli ostaggi israeliani). Tutto ci ricorda ferocemente che la Terza Guerra mondiale già adesso è la nostra quotidianità. Ci eravamo illusi che con il 1989 la storia fosse finita, invece è tornata prepotentemente a chiedere nuova attenzione. Siamo ritornati alla Cortina di ferro con lo stesso pathos dei nostri padri all’inizio degli Anni Cinquanta.

In questa fase sono molti i richiami al valore universale della pace, ed emerge chiaramente come rispetto a quarant’anni non sia più sola prerogativa del mondo cattolico e della sinistra. Anche ampi spazi della cultura politica della destra sono contrari a un’escalation il cui esito non è prevedibile.

L’Adige ha deciso di dare spazio alle vostre parole. Vogliamo sapere cosa pensano i veronesi, quali sono le loro valutazioni e le preoccupazioni. Iniziamo con due nostri opinionisti, ma considerate questo spazio a vostra disposizione. Vi chiediamo testi di un massimo di 3000 caratteri. Li potete inviare a boss@giornaleadige.it.

Paolo Danieli: «È giusta la strada imboccata dai nostri governi?»

Pazza idea quella di Emmanuel Macron (nella foto CGTN qui sopra) che ha ventilato la possibilità di un intervento militare diretto della Francia in Ucraina. Significherebbe il coinvolgimento nella guerra della Nato. Non è necessario essere dei politologi per capire che sarebbe la guerra atomica.

Meno male che la Meloni, pur schierata contro la Russia, ha escluso che l’Italia possa inviare truppe in quel teatro di guerra. Lo stesso hanno dichiarato altri leader europei con la testa sulle spalle, a parte quello della Polonia dove, si sa, c’è un atavico sentimento anti-russo.

Charles Michel, belga, presidente del Consiglio Europeo, chiede che “si passi ad un’economia di guerra” e perfino Paolo Gentiloni, cattolico, auspica un nuovo grande debito pubblico europeo per finanziare l’industria degli armamenti. L’Unione Europea, che si è sempre preoccupata di tutt’altro, ora progetta di costituire una forza armata europea, e si prepara a fare grandi investimenti in armamenti da inviare in Ucraina e ha deciso l’invio a Zelensky di altri 4 miliardi.  

Anche il vocabolario ed i toni dei commentatori politici del mainstream mediatico è virato in quattro e quattr’otto dal pacifismo al bellicismo. Che cos’è successo? È talmente forte il conformismo da superare il principio aristotelico di non contraddizione anche per coloro che fino a ieri si sono sempre riempiti la bocca con la parola “pace”?

La pressione bellicista sale sempre di più e quel che più preoccupa è l’atteggiamento complessivo che pervade la politica europea e che rappresenta una preoccupante pre-condizione per una possibile quanto sciagurata scelta di entrare in guerra.

Una guerra che la gente non vuole. L’hanno ormai capito tutti che il solo appoggio “esterno” comporta spese altissime che ricadono sul tenore di vita di ciascuno di noi. Figuriamoci un coinvolgimento diretto! La gente non vuole sentirne parlare anche solo in via ipotetica. La reazione è immediata e di rifiuto totale. Fate un sondaggio fra le vostre conoscenze, avrete un risultato di unanimità e la sorpresa di come gli italiani la pensino diversamente dalla classe politica. O almeno da quello che la classe politica afferma di pensare.

Andatelo a chiedere ai giovani, che cosa pensano della guerra, a coloro che sono in età di arruolamento. Vi renderete conto che è un’eventualità che non viene nemmeno presa in considerazione ed è rifiutata a priori nella sua totalità.  

Con tutta la pietà per le centinaia di migliaia di morti che ci sono state inutilmente finora ogni europeo si deve chiedere: è la strada giusta quella imboccata dai nostri governi? E con il massimo rispetto per il diritto dei popoli all’indipendenza e all’autodeterminazione, perché mai ci dovremmo fare carico solo dell’integrità delle frontiere ucraine, quando abbiamo ignorato e ignoriamo la violazione dell’integrità territoriale di decine e decine di altri Paesi del mondo? Ha senso che la difesa dei confini dell’Ucraina possa spingere l’Italia e l’Europa alla terza guerra mondiale? Ci rendiamo conto dei rischi immani di questa politica?

Sono queste le domande che ogni persona libera deve porsi e porre ai propri cari, agli amici e ai conoscenti, affinché si crei un grande movimento d’opinione che spinga chi ha le leve del potere in mano a far tacere le armi e ad avviare un negoziato. Prima che sia troppo tardi.

Bulldog: «Kiev è la nostra Monaco: se cediamo oggi, combatteremo domani»

Nessuna persona sana di mente vuole andare in guerra. Nessun padre di famiglia vuole vedere il proprio figlio andare in guerra. Nessuno in Europa, o in Ucraina, negli USA e nella stessa Russia vuole combattere una guerra senza senso. Ma c’è una persona che lo vuole. Che ha capito che le divisioni atlantiche aprono spazi per la sua politica imperialista. Quest’uomo è Vladimir Putin e quest’uomo che ha iniziato la guerra la può far finire in un minuto, alzando il telefono e richiamando i suoi generali.

Putin ha avuto più di un’occasione per inventare un futuro diverso per il suo popolo dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Aveva la potenza economica per disegnare un percorso di prosperità e di integrazione con l’Europa che non è “altra” rispetto alla Russia, ma parte dello stesso mondo culturale. Non a caso, egli definisce Mosca la “terza Roma”.

Certamente, è stato “usato” da noi europei e occidentali: quando nessuno voleva sporcarsi le mani in Siria ci è andato lui; così come in Libia dopo il flop della strategia inglese e francese nell’eliminare Gheddafi. O nel Sahel a combattere i jihadisti.

Nessuno dice che l’Occidente è un santo e Putin il diavolo. Ma da questo a cercare di annientare un popolo ce ne corre. I confini dell’Ucraina li ha disegnati l’URSS, non un governo “nazista” a Kiev.

Ma il punto non è neppure questo. Il punto è che i popoli della ex URSS – baltici, ucraini, bulgari, moldavi, rumeni, polacchi, prussiani… ma anche tedeschi, finlandesi, svedesi e norvegesi – di tornare sotto la bandiera rossa non ne vogliono sentire più parlare. Fra la dittatura e l’Occidente coi suoi limiti hanno scelto la libertà di quest’ultimo, le garanzie di un’Europa che ha cancellato da ottant’anni la parola guerra dal suo vocabolario.

Come a Monaco nel 1938 ci troviamo davanti ad una sfida che non abbiamo voluto. Dalla nostra postura di oggi dipende il nostro futuro. Se oggi facciamo come Neville Chamberlain i nostri figli andranno in guerra. Se restiamo calmi, saldi nei nostri valori, dalla parte del diritto internazionale, all’interno della nostra alleanza riusciremo a portare Putin al tavolo del negoziato. Cedere oggi vuol dire barattare una pace effimera con una guerra certa. L’Europa ha scelto questa strada. Con coraggio, direi. Dato che non era facile rinunciare al gas russo a buon mercato.

L’Europa finalmente ha anche compreso che non può più essere un gigante economico, un nano politico e un verme militare. Non possiamo più dipendere dagli USA per la nostra sicurezza. Dobbiamo tornare ad investire, a far lavorare insieme l’industria militare del continente, a condividere la formazione dei soldati europei, le loro tattiche sul campo, le loro linee di comando.

Non per conquistare Mosca, ma per salvaguardare Mosca così come Berlino, Parigi, Verona. Questa è l’ora della responsabilità. E abbiamo il dovere – per rispetto dei milioni di morti che ha generato la conferenza di Monaco in Europa e nel mondo – di non cedere, di  non scappare. Non è più il tempo di Badoglio o di re sciaboletta. Questa è la nostra Repubblica. E nessuno può portarcela via.  

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