Così finisce il sogno di una finanza alternativa e “democratica” a Verona

C’era un sogno a Verona. Ed era quello che fosse possibile creare una finanza alternativa alle tre big blue veronesi: Popolare, Cattolica e Cassa di risparmio/Unicredit.
Un castello su tre bastioni che sino a Tangentopoli permetteva soltanto una sorta di minima competizione in città, con la sola scelta fra finanza più o meno cattolica, ma dalle condizioni (costi, servizi, disponibilità di credito) sostanzialmente identiche. [//]Se non un cartello, una posizione di assoluto controllo del mercato bancario e finanziario veronese.
Persino dopo gli sconquassi degli Anni Novanta questa “rigidità” si è ulteriormente consolidata con le tre roccaforti sostanzialmente identiche nel loro proporsi al mercato.
Chi è più efficiente in una cosa, chi in un’altra, ma di fatto un mercato rigido. Controllato dall’establishment della città. Con uniche alternative le banche “di fuori” – chi c’è da sempre, chi arrivato con la liberalizzazione degli sportelli -, ma comunque sempre banche non locali, con centri direzionali esterni alla città, di fatto non alternative all’establishment che controlla le tre cassaforti. Certo, queste sono ad azionariato diffuso, sono parti importanti del patrimonio delle famiglie veronesi.
Famiglie veronesi che oggi sono tutte e tre quotate in Borsa, ma nel loro capitale ci sono sempre stati azionisti di panza e sostanza, che ne guidavano i destini, ed altri, i più, a fare soltanto i piccoli azionisti. Vogliamo chiamarlo un gap – persino salutare, visti i risultati raggiunti indiscutibilmente da queste realtà – di democrazia economica che comunque ha garantito un sistema che ha funzionato? Comunque lo si voglia giudicare, è da questo gap, dalla sua evidenza, dal blocco dei meccanismi di ricambio ai vertici di queste istituzioni che sono sorte negli ultimi quindici anni diverse esperienze che hanno cercato di allargare peso e ruolo di investitori esterni al cerchio dell’establishment. Con progetti finanziari improntati al modello della public company, con azionariati diversi da quelli storici, con nuovi protagonisti del boom degli anni Settanta e Ottanta. Ricchezze più nuove, più grintose. Rampanti. Che reclamavano ruoli e status nuovi. Sembrava una salutare operazione di apertura del mercato di fronte ad accuse esplicite di pervenu della finanza. E su questa apertura hanno raccolto simpatie e capitali. A distanza di una quindina d’anni – ed alla luce di rumors di possibile uscita dal consiglio d’amministrazione dell’ultima realtà bancaria nata nel Veronese dei due consiglieri indipendenti, dopo l’ennesima rivoluzione nel personale e la bocciatura da parte di Bankitalia del piano di apertura di nuovi sportelli – si può tentare di fare un bilancio complessivo di questa voglia di “nuova” finanza a Verona.
E il bilancio è lontano dal sogno iniziale. Ci sono stati fallimenti clamorosi, drammi personali tragici – e su alcuni dei quali è stata calata una cortina di piombo, una coltre di silenzio – la consegna a centri direzionali non veronesi di maggioranze societarie e di governance vere. Si sono fatte e disfatte alleanze; si sono cercati affari giocati su più tavoli; in un solo caso, ad oggi, gli azionisti di minoranza hanno salvato e remunerato il capitale investito. C’è da chiedersi cosa era sbagliato. La voglia di democrazia economica? Quella evidentemente no. La mancata adesione di un management bancario e finanziario di esperienza? Neppure quella, si può dire se si scorrono i boards passati di queste realtà ed anche gli organigrammi dei dipendenti. L’assenza di una cultura manageriale capace di gestire la finanza sofisticata di questi anni, ma anche le regole più tradizionali dell’attività bancaria? Oppure les affaires d’abord, gli affari sopra tutto e tutti nella gran voglia di emulare in fretta le ricchezze più consolidate della città?
Un mix comunque mortificante. Bulldog registra quindi la fine di un sogno. Fuori dalle big blue (e dal sistema delle Banche di credito cooperativo che godono di un invidiabile momento) non sembrano esservi le risorse umane per un progetto di questa portata. E anche il prossimo piano di “polo finanziario” sembra più improntato a garantire l’esistente che non a creare le condizioni di una nuova stagione di apertura e di ricambio. Verona probabilmente dirà “meglio così!”. Le regole del mercato certamente il contrario. In ogni caso, uno stop.

L’Adige, 14 Gennaio 2006, pagg. 1 e 5

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