Affidato ai servizi sociali preferisce tornare in cella. Lavorare? Troppa fatica.

Sembra una chiacchiera da bar dire che in fin dei conti i carcerati non fanno niente dalla mattina alla sera e che invece dovrebbero essere costretti a lavorare. Ma non lo è. La mancanza della libertà è la pena. D’accordo. Particolarmente pesante, per chi delinquente non è, e magari è anche innocente. Ma per chi è abituato ad andare dentro e fuori dalla galera, dove magari può stare assieme ad amici e ‘colleghi’ – si fa per dire-, la mancanza della libertà diventa meno pesante.
Ecco allora la necessità di far lavorare i detenuti. Non solo per dar corso al criterio costituzionale che vuole la pena finalizzata alla rieducazione e al recupero del reo, ma anche per pagarsi, almeno in parte, quei 3.511 euro mensili (dato della Polizia Penitenziaria) che servono per il mantenimento di ciascun detenuto.
Questo dovrebbe valere per tutti.

Ci sono poi quelli che vengono condannati a prestare la loro opera presumi Servizi Sociali. Un modo per rimanere in contatto con la società e per favorire la rieducazione prima, e il reinserimento del condannato poi, a fine pena. Una misura che il giudice generalmente offre come alternativa alla cella a coloro che non sono ritenuti pericolosi e che si ritiene non possano reiterare il reato per il quale sono stati condannati.

Non la pensa così un 38enne di Seregno, provincia di Monza, condannato a sette anni e quattro mesi per omicidio stradale e omissione di soccorso per aver ucciso un ragazzo di 22 anni mentre guidava ubriaco e senza patente. Non l’avevano messo a scavare le rocce in miniera, né a scaricare quintali di merce, né a dissodare terreni riarsi: faceva il giardiniere. Ma per lui lavorare è troppo faticoso. Per cui s’è recato dai carabinieri e s’è fatto arrestare. Meglio tornare in cella, dove almeno può non far niente dalla mattina alla sera.

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