Denatalità: sempre meno giovani e lontani dal lavoro. A Verona in 10 anni 4000 in meno, le aziende rischiano

(di Stefano Tenedini) Un milione di giovani italiani scomparsi dai radar negli ultimi dieci anni, evaporati dall’anagrafe, sottratti alla società e alle nostra famiglie. Ma anche dal mondo del lavoro. In media centomila ragazze e ragazzi tra 15 e 34 anni sono mancati ogni anno all’appello. Raccontata con i numeri e le conseguenze, la denatalità è una brutta bestia da guardare in faccia. Anche perché questa contrazione, fa notare l’ufficio studi della CGIA di Mestre, sta colpendo proprio la fascia di età più produttiva della vita lavorativa, creando gravi difficoltà alle aziende.

Molti imprenditori, come confermano anche le indagini congiunturali delle associazioni di categoria, faticano ad assumere personale non solo per il problema ormai cronico di trovare candidati disponibili e soprattutto professionalmente preparati. La platea degli under 34, quella che dopo gli studi e la formazione è pronta a farsi avanti nel mercato del lavoro, sta progressivamente riducendosi. La crisi demografica passa così dai grafici degli analisti alla realtà quotidiana e sta facendo sentire i suoi effetti sulla carne viva dell’economia. Non solo in un futuro – così prossimo da essere ormai alle porte – la rarefazione della forza lavoro più giovane è destinata ad accentuarsi ulteriormente, ma ne riparleremo in termini di emergenza quando la stessa struttura previdenziale comincerà a tremare dalle fondamenta.

Lavoro: entro il 2027 serviranno 3 milioni di addetti

Entro il 2027, per cominciare, ci troveremo a dover sostituire quasi tre milioni di addetti. In questi quattro anni infatti il mercato del lavoro richiederà tanti nuovi addetti per compensare le persone destinate ad andare in pensione. I dati sono ricavati dalle “Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine: scenari per l’orientamento e la programmazione della formazione” curate dal Sistema Informativo Excelsior. Unioncamere-Anpal periodicamente raccoglie i dati attraverso le interviste agli imprenditori e quindi li elabora con un modello econometrico multisettoriale. A questo link si può leggere il documento integrale aggiornato con i dati del 2023.

Con meno ragazzi al lavoro il sistema previdenziale corre seri rischi di equilibrio
Senza giovani un futuro in forse anche per le pensioni
Le piccole botteghe artigiane risentono del calo demografico quanto e più delle aziende industriali
Lavoro, in sofferenza industrie e soprattutto artigianato

A legislazione vigente, sottolinea la CGIA, nei prossimi cinque anni quasi il 12% degli italiani di farà definitivamente da parte, lasciando il posto di lavoro dopo aver raggiunto il limite di età. Con sempre meno giovani destinati a entrare nel mercato del lavoro, quindi, trovare come e con chi sostituire una buona parte di chi scivolerà verso la quiescenza diventerà un grosso problema per sempre più imprenditori.

Meno ragazzi, e molti senza impiego o lasciano la scuola

E non basta. Il punto non è solo la carenza di nuovi lavoratori indotta dalla curva demografica, perché oltre a avere pochi giovani il tasso di disoccupazione nella fascia junior ancora non cala, così come resta altissimo il preoccupante abbandono scolastico, soprattutto nel Mezzogiorno. Facendo le somme, i giovani italiani sono sempre meno e il loro livello di povertà educativa cresce in maniera allarmante, tenendoli lontani dal mondo del lavoro. Un quadro desolante che emerge in maniera chiara – e inquietante, diciamolo – se ci confrontiamo con il resto d’Europa.

Continuando a parlarne senza fare nulla per contrastare questo fenomeno, rischiamo di pagare cara l’inattività. Il sistema Paese deve aumentare il numero delle nascite, a investire di più nell’istruzione e nella formazione professionale. Ma se qualcuno ha un’idea vincente, che bilanci costi e benefici e non sia velleitaria, elettorale o fuffa da farfugliare in piazza, beh, è pregato di farsi vedere e sentire. Possibilmente portando dati e proposte concrete, non chiacchiere.

La CGIA propone un patto con gli stranieri che scelgono l’Italia

Un’ipotesi c’è, tutta da verificare come fattibilità ma c’è. Qualcuno ogni tanto ne parla, salvo poi venire sommerso dal bombardamento ideologico e dalle mine antiuomo degli slogan. Serve adesso, subito, un progetto di inclusione (seria e non tanto per dire) che coinvolga gli immigrati che vogliono stabilirsi e lavorare in Italia. Alla luce della denatalità che affliggerà sempre più l’Italia, è evidente che per almeno i prossimi 15-20 anni il sistema economico dovrà fare stabilmente ricorso al crescente impiego di migranti extracomunitari. In che modo?

La stessa CGIA avanza una proposta: che per legge si stabilisca di accordare il permesso di soggiorno ai cittadini stranieri che si rendano disponibili a sottoscrivere un patto sociale con l’Italia, a eccezione di chi entra con già in mano un contratto di lavoro o di chi possiede i requisiti per ottenere la protezione internazionale.

Se gli italiani diminuiscono, la risposta può venire dai giovani stranieri motivati a vivere e lavorare nel nostro Paese
Corsi di italiano e formazione per imparare un mestiere. Ma lo Stato può farcela?

Secondo gli artigiani (settore che più di altri sta subendo gli effetti negativi del lavo di natalità e di addetti) il contenuto dell’accordo potrebbe essere questo. Se il cittadino straniero si impegna a frequentare uno o più corsi, e entro un paio di anni impara la nostra lingua e un mestiere, al conseguimento di questi obbiettivi lo Stato italiano lo regolarizza e lo facilita nel trovare un’occupazione. I rischi e le complessità di questa operazione sono naturalmente molti: vediamoli.

Per cominciare siamo ancora scottati dalla pessima idea del reddito di cittadinanza e dal fallimento di “navigator” che non avrebbero saputo distinguere la poppa dalla prua. Inoltre il tema dell’immigrazione e del suo rapporto con il mondo del lavoro è bollente e molto articolato. Inoltre dovremmo poter contare su una Pubblica amministrazione efficiente e rapida, con una logica di gestione – e risultati! – che per adesso possiamo solo sognare.

Tanto per cominciare bisognerebbe rifondare completamente i Centri per l’impiego, se no c’è il rischio che anche questa ipotesi finisca a gambe per aria con codazzo di spese improduttive, scandali e scandaletti e un’ulteriore perdita di credibilità del sistema Italia. La CGIA propone di coinvolgere anche le Camere di Commercio, oltre a stringere ulteriormente i legami e le relazioni tra la scuola e il mondo del lavoro. Ambito questo in cui dopo molta sfiducia reciproca e tante delusioni si possono oggi contare anche risultati decisamente positivi, come il crescente successo degli ITS e la buona qualità della formazione professionale. In questo campo – anche guardando ai giovani che citavamo all’inizio – occorre un forte incremento degli investimenti, che in molti casi è di competenza delle Regioni.

Il Veneto ha perso il 2,8% dei giovani nella fascia 15-34 anni

A corredo dell’analisi sulla denatalità la CGIA ha messo a disposizione i dati che delineano la situazione provincia per provincia. Prendiamo Verona, che nel 2013, proprio dieci anni fa, poteva contare su quasi 200 mila giovani nella fascia d’età 15-34 anni. Nel 2019, appena prima del Covid, il numero si era ridotto a 189 mila, per risalire quest’anno (al 1° gennaio) a quasi 191 mila. Il calo è stato quindi di quasi 4000 unità, con una riduzione in percentuale del 2%. Una situazione non entusiasmante, anche se leggermente migliore rispetto alla media del Veneto. A Verona inoltre al momento non si registra un calo del lavoro, anzi: il mercato si è dimostrato dinamico anche in agosto, con 7000 assunzioni soprattutto nelle piccole imprese, come anche L’Adige aveva riportato poche settimane fa.

La ricerca di un lavoro adeguato alle proprie aspettative per un giovane può essere molto frustrante e condurre anche all'abbandono scolastico
Per troppi giovani il primo approccio con il mondo del lavoro è una vetrina così

La regione era partita da un milione di giovani a è scesa adesso a 973 mila, con un calo percentuale quindi del 2,8%. In regione il calo più consistente si è verificato a Rovigo e a Belluno, rispettivamente con il -15,3% e il -5%, mentre la provincia meno colpita è stata Venezia con il -1,4%. Leggermente sotto la media regionale anche Vicenza con il -2,4% e decisamente meglio Treviso con il -1,7%.

Va molto peggio nel Mezzogiorno, dove gli under 34 sono decisamente diminuiti: il Sud Sardegna, Oristano, Isernia e Cosenza le province più colpite. Nel panorama italiano del calo demografico la percentuale è stata infatti pari al -15,1%, mentre il Centro si è ritrovato con un -6,6% di giovani. Più contenuta a flessione al Nordovest (-1%) e al Nordest (-0,5%). A livello regionale è la Sardegna con un -19,9% a rappresentare il picco negativo, mentre subito dietro le flessioni più importanti sono in Calabria con il -19%, il Molise con il -17,5%, la Basilicata con il -16,8% e la Sicilia con il -15,3%.

A livello provinciale, per concludere, la diminuzione più grave è in Sud Sardegna con -26,9%, seguita da Oristano (-24%), Isernia (-22,2%) e Cosenza (-19,5%). In controtendenza una dozzina di province con un aumento demografico nella fascia giovanile: positive le provincie di Trieste con il +7,9%, Bologna con il +7,5% e Milano con il +7,3%.

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